mercoledì 7 novembre 2012

I DOLCI AI TEMPI DEI ROMANI

 

 

Prendere dei datteri snocciolati; farcirli di noci, di pinoli o di pepe tritato. Salarli e figgerli nel miele. ( A. VII, XIII, 1)
Cuocere nel latte i sedani a pezzi; sgocciolarli e metterli brevemente nel forno: appena tolti punzecchiarli e cospargerli di miele e un po’ di pepe. (A. VII, XIII, 2).
Bagnare del pane raffermo nel latte, friggerlo nell’ olio e cospargerlo di miele . (A. VII, XIII, 3).
Pane “ indorato”. Immergere delle fette di pane raffermo in una pastella dolce preparata con farina stemperata nel latte, uova e zucchero. Friggerle quindi in olio bollente e portarle in tavoa cosparse di zucchero. (da Le ricette contadine, 1988).

Dolci in altro modo. Prendere fior di farina e cuocerla in acqua calda, in modo da farne una polta durissima. Poi distenderla nel tegame. Quando si è raffreddata, tagliarla a mò di dolciumi e friggerla in olio del migliore. Quindi levarla e bagnarla con miele; cospargere di pepe e servire. Meglio, se si userà latte invece di acqua.
Cuocere la farina nel latte caldo fino a quando diventa molto consistente. Quando è raffreddata tagliarla a pezzi, friggerla e condirla con miele e pepe. (A. VII, XIII, 6).
 
Il miele. Sebbene Plinio abbia descritto la canna da zucchero, questa era considerata un prodotto medicinale esotico: Anche l’ Arabia produce lo zucchero, ma quello dell’ India è più pregiato. Si tratta di un miele che si raccoglie sulle canne, bianco come la gomma, fragile sotto i denti, delle dimensioni, al massimo, di una nocciola, impiegato solo in medicina. (N. H.,XII, 17). Grande importanza rivestiva invece il miele, il cui uso era pressocchè costante in gran parte delle ricette.
I fichi. In alcuni casi sopperivano al miele : facendoli bollire a lungo si otteneva , il cosiddetto “miele di fichi”, che poteva essere conservato a lungo.
  
La frutta. Tenga in dispensa ( la massaia, n.d.r.): pere secche, sorbe, fichi, uva passa, uva in marmitte, mele stanziane in doglio e tutti gli altri frutti che è uso conservare, anche quelli selvatici, li conservi ogni anno con diligenza. (de agr. 144 (CLII)) scriveva Catone a proposito dei frutti da conservare.
Veniva, infatti, privilegiata la produzione di noci, nocciole, mandorle, pinoli, perché protetti dal guscio, nonché di mele, pere, cotogne, sorbe e soprattutto fichi perché potevano essere essiccati o conservati più a lungo senza guastarsi.
I fichi in particolare non solo integravano l’ alimentazione delle classi meno agiate, ma avevano anche una valenza condimentaria per il loro alto valore zuccherino.
Le pesche, che Apicio usava come antipasto, furono all’ inizio importate come specie a fini farmaceutici: Tra le pesche il primato è delle duracine…Questo frutto innocuo è ricercato per i malati; lo si è pagato fino a 30 monete il pezzo, più di ogni altro frutto, fatto che deve sorprendere, perché nessun altro è più effimero. Infatti, un’ attesa di due giorni dopo la sua raccolta è già il massimo e se ne impone lo smercio. (Plinio, XV, 11).










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